Instagram: che mondo allucinante. Forse ancor più di Facebook, il che è tutto dire. Mi sono chiesta spesso quale sia il meccanismo che scatta dentro di noi quando seguiamo gli/le influencers sui social. Forse vorremmo segretamente essere come loro? Andare in vacanza alle Maldive e avere un fidanzato che ci fotografa come un artista (alla faccia degli ex che ci tagliavano i piedi e ci facevano uscire storte)? Certo, senz’altro questa è una risposta. Perché, diciamoci la verità, chi non vorrebbe avere il 20% del guardaroba e della possibilità di viaggiare di una influencer qualunque? E se la vostra risposta è “io no, sono diversa”, allora una di noi due sta mentendo.
Il cambiamento: ecco qual è il vero motore delle nostre vite. Ne sono consapevole, l’ho sempre creduto e l’ho anche scritto nel mio libro, con convinzione assoluta. Eppure, nella vita quotidiana, è difficile guardarsi allo specchio e accettarlo. Accettare che siamo sull’onda di una metamorfosi continua, che niente dura in eterno, nulla resta uguale e che noi dobbiamo adattarci. Non esiste una scuola che possa insegnarci come affrontare il cambiare continuo dello stato delle cose. Si chiama vita: è l’unica scuola di cui disponiamo.
Il fallimento è uno spettro che ci insegue da sempre, inutile negarlo. Ci spaventava quando eravamo bambini a scuola e temevamo le verifiche di matematica. È andata avanti così per tutti gli anni della scuola, fino al diploma. E poi la paura di non riuscire a inserirsi in un gruppo di amici, di non avere una comitiva, di non far colpo sulla persona che ci piace. Tutta la vita è costellata dal terrore del fallimento. Eppure, se ci fermiamo a pensarci per un attimo, la perdita più grave sarebbe proprio l’essere sempre vincenti. Perché a quel punto non avremmo più nessuna ragione per vivere.
Non sapevo nuotare, non mi piaceva sudare sotto il sole cocente in spiaggia con la sabbia che mi scartavetrava le piante dei piedi e il sudore che mi incollava i capelli sulla fronte.
D’estate pensavo all’autunno, al silenzio buono delle strade rese scivolose dalla pioggia.
Non so perché l’ho fatto. Un giorno sono entrata da H&M, ho visto questa gonna abbandonata a se stessa con un cartellino con su scritto “4€” e l’ho presa. Anche se sembrava uno scampolo di stoffa dimenticato da un sarto ubriaco. Anche se non sapevo con che cosa l’avrei indossata e anche se le probabilità di sembrare una zingara che rapisce i bambini era effettivamente sopra i limiti consigliati.
Comunque.
Il fatto è che sta arrivando la primavera e siamo tutti più pazzi, un po’ come a Natale siamo tutti più buoni, e allora cosa vuoi che sia, una gonna di finto raso color melanzana tagliata male. Perché il punto, vedete, è che questa gonna non ha una forma. Doveva pur esserci una giustificazione per un prezzo del genere. Così oggi ho tirato fuori dall’armadio questa roba di stoffa scadente perché chi se ne frega, è primavera, e ho degli stivaletti nuovi ed è bello indossare qualcosa di strano e imperfetto, qualcosa che magari stona con i capelli rossi e con gli occhiali da sole con la montatura verde che ho comprato a 6 euro a Firenze.
Vado a lavorare con la gonna storta, ma tanto a Michè va bene lo stesso, e tra una divisione in colonna e una pagina di storia mi dice che sono strana con la gonna, non mi ha mai vista così, ma va bene lo stesso.
La gonna fa un fruscio strano mentre cammino, mentre il vento la sballottola qui e lì e la cenere della sigaretta vola e scivola sul raso finto. “Puoi farci uno straccio per i piatti, con una roba così”, mi ha detto mia madre. E il bello è che è vero, ma non m’importa lo stesso. Il LimeCrime, tonalità Salem, che non viene via nemmeno con la salvietta struccante, figuriamoci con i baci (ma il mio preferito è il Riot). C’è un buon odore di primavera nell’aria. I miei campioncini di profumo che mamma colleziona da Bottega Verde. La voglia di viaggiare, di essere altrove anche mentre sono qui, dove sono cresciuta. Una sfogliatina noci e succo d’acero. Il ragazzo straniero con la erre francese e le gambe magre nel treno delle 11.33. La felicità è quella cosa che si fa vedere soltanto se sei abbastanza perspicace da accorgertene, in mezzo a tutta questa nebbia.
Ci siamo, allora: l’inverno sta finendo. C’è questa pagina della Vita nova che da qualche giorno mi ronza nella testa. C’è Beatrice, no?, e davanti a lei cammina Giovanna, chiamata Primavera per la sua bellezza. Ma non si tratta solo della sua bellezza, in realtà. Lei è la primavera perché Prima Verrà, perché anticiperà Beatrice. Mi è sempre piaciuto, questo gioco di parole.
Così, in questi giorni, questo ritornello mi ronza nella testa e si è rafforzato, in particolare, nelle 48 ore trascorse a Firenze. Sono partita che era martedì mattina, sono arrivata di notte, ho trascorso un giorno lì e sono ripartita giovedì mattina. E lì, guardando l’Arno verde smeraldo alla luce del mattino, e le botteghe di Ponte Vecchio che secondo la mia compagna di viaggio sono Diagon Alley, e i lucchetti intorno alla ringhiera con su scritto “Vietato mettere lucchetti”, pensavo alla primavera in arrivo, a quel vento scombinato che non si sa mai dove ti lancerà i capelli, a quel non so che di sonnolento che è nell’aria e che, chissà come, ha la stessa forma di un risveglio.
Photocredit: Bianca Cataldi
C’è qualcosa di molto divertente nei viaggi che durano 48 ore. Non hai il tempo di abituarti a ciò che vedi, devi fare in fretta e al tempo stesso non vuoi dimenticare nulla. E poi ci sono i bar, i caffè a tre euro, il caffè con panna che arriva anche a quattro ma chissenefrega, una volta si muore. La pizza col pesto in via de’ Calzaiuoli, il gelato cioccolato e menta, e tutti quei negozi pieni di borse di pelle che costano più di tutta me e un pezzettino del mio gatto.
Gli interminabili viaggi in pullman, quella primavera che già si intuisce all’orizzonte, spalmata in un cielo rosso fuoco al tramonto, mentre l’ordine casuale dell’iPod manda in loop Battisti con Vento nel vento e, guarda un po’, ecco qui le pale eoliche tra la fermata di Napoli e quella di Andria. Ho sempre amato le pale eoliche, chissà perché. Specialmente così, con Battisti immenso negli auricolari troppo stretti per contenerlo e il tramonto di fine inverno lì fuori, rosso e viola, raschiato nell’azzurro.
C’è una primavera lì fuori, in attesa al varco. Preparo uno degli ultimi tè caldi della stagione, accendo ancora una volta il caminetto e lascio che il gatto mi si aggrappi al maglione, tanto ormai i fili li ha già tirati tutti. Verdino mi fissa dalla culla, con quegli occhi che sembrano già capire così tanto.
Se domani sarà bel tempo, potrò finalmente tirar fuori dall’armadio la mia gonna preferita, quella verde smeraldo. Primavera. Prima verrà.
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