L’amore dopo l’amore

amore

Racconto

In questi ultimi tempi ho capito molte cose. Che siamo vite, innanzitutto, e in quanto vite abbiamo fasi da attraversare, crescite, riflessi che s’ingrandiscono dentro gli specchi. L’ultimo mese, ti dirò la verità, non sono stata poi così bene con te. È stato allora che ho capito che una fase – quella iniziale, la nostra splendida ingenua infanzia – si era appena conclusa. E, come sempre accade al bambino che per la prima volta si affaccia all’adolescenza, per un po’ ho avuto paura. Terrore, anzi. Terrore di vederti amarmi, di sentirmi la più forte, di amarti meno di quanto tu mi ami. Per molti giorni ho avuto paura di poterti fare ciò che avevo fatto a chi ti ha preceduto. Per molti giorni. È venuto Capodanno, siamo stati soli a casa tua, una cenetta a lume di candela. Da molto tempo non rivedevi i tuoi amici. Mi sono spaventata perché ho temuto di essere diventata il tuo tutto, e io non voglio esserlo.

Mi sono ricordata del Capodanno dell’anno prima, io e te a casa della nonna di Daniele, noi in quella stanza in cui non so chi era morto, al buio, la tua cravatta appesa alla maniglia esterna come fosse un rudimentale Do not disturb e poi Marco che apre la porta per sbaglio, capisce tutto, e noi che in coro gli diciamo Ciao, Marco e lui che ci saluta, imbarazzato, e poi va via. Il nostro primo Capodanno… com’è stato bello! O forse è vero che il ricordo sublima. Forse è vero che in quei momenti, tra i tuoi amici, fumando sull’orlo di un balcone che non era il mio, forse è vero che in quei momenti mi sono sentita a disagio. Ma ero a disagio anche sul tuo divano, quest’ultimo Capodanno, a pensare a quanto somigliavi al mio ex, in quel momento, a quanto fossi spaventata dal tuo diventare lui, inesorabilmente, giorno dopo giorno.

Ma credo che tu l’abbia capito. Fatto sta che hai ricominciato a vedere i tuoi amici, non mi chiami più troppo spesso, ci quasi-ignoriamo con dignità. E forse è vero che il tempo dei film di Rohmer con l’audio in ritardo e la cioccolata amara di Matisse è finito per sempre, ma è anche vero che crescere è parte di noi, siamo nati per diventare continuamente qualcosa di diverso da ciò che siamo. Siamo nati asindoti, eternamente tendenti al più o meno infinito. Ti amo in maniera più adulta eppure ti amo più di ieri. Sei il mio corpo, se ti bacio bacio le mie labbra, e se mi tocco mi tocco con le tue mani, cammino nel tuo quarantadue di scarpe o forse era quarantatré e la verità è che non ho mai saputo quanto calzi, quasi quanto tu non hai mai conosciuto la taglia dei tuoi pantaloni e nei negozi d’abbigliamento devi spogliarti tra le grucce gravide per scoprirlo. Il tempo ci ha resi più morbidi: non sbattiamo troppo agli spigoli del nostro essere diversi – speculari – ci accarezziamo aggredendoci. È una nuova fase – questa –  la nostra adolescenza, il nostro tempo ribelle, sconsiderato, forse un pochino depresso. È in questa fase che le radici penetrano nel terreno. È questo il momento che definisce ciò che saremo, non l’infanzia, che con la sua dolcezza velata di euforia è servita a metterci al mondo, e poco di più. Mi piace, immaginarci come una sola vita. È come se ci avessi portati in grembo per nove mesi, e un po’ è stato così, perché per nove mesi ti ho amato di nascosto.

Tra due giorni ho l’esame di storia della tradizione classica con l’uomo che è stato il tuo professore di italiano al liceo per quattro anni. Ironia del destino. Non l’avrei mai saputo, se non fossimo stati insieme adesso, eppure quell’uomo, lo stesso che mi ha messo un trenta tondo tondo allo scritto e che fra due giorni m’interrogherà, quello stesso uomo era colui che ti diceva che nei compiti in classe correvi troppo, che i tuoi pensieri erano più veloci di te, come mi raccontasti una di quelle volte che tornavamo insieme dalla scuola di musica. Quando arriva la fine del sabato, è come se un pezzo di me si spegnesse con la cicca di sigaretta che butti sempre prima di averla consumata fino alla fine. Il sabato è il fondo della settimana, ed è il mio obiettivo. Vivo, per il sabato. L’università, gli esami, lo studio, e poi il pianoforte, il trucco sempre un po’ pesante della mia nuova professoressa… tutto è solamente una strada verso di te. Verso il nostro sabato. Verso il momento in cui scendo dal treno e leggo il nome della tua città in bianco sul cartello blu e ricordo il mio primo momento lì, il mio primo passo sul marciapiede della stazione. E allora mi accendo una sigaretta – adesso le fabbrico io, con una macchinetta, tabacco Lucky Strike da 15 g – e vedo il fumo volarmi via dalle labbra come se qualcuno lo stesse tirando e poi vedo te. La tua testa compare e scompare dal muretto come uno yo-yo impazzito ed è lì che inizia il mio sabato, l’obiettivo della mia intera settimana, e tu attraversi i binari saltellando, le tue Timberland contro il legno e le pietre, e poi sono dentro il tuo abbraccio e hai sempre un sapore un odore diverso da quello della settimana precedente. Sei la mia casa, cammini con me ancorato alle mie spalle. Sei tutte le stanze nelle quali muoio dalla voglia di entrare, e ti tengo chiuso a chiave il più possibile per non consumare troppo presto la gioia che proverei nell’aprirti.

A luce distante

Aveva passato la giornata a mettere in ordine la casa, eppure ogni cosa continuava a essere fuori posto.

Aveva riordinato gli appunti, risistemato i libri sugli scaffali e anche quelli che giacevano sul pavimento, nell’unico posto ancora rimasto libero per loro. Aveva lavato gli specchi, spolverato i ripiani dei mobili, gettato nella spazzatura i rossetti ormai vecchi che emanavano un odore chimico. Il giradischi in funzione per tutto il giorno, gracchiante.
Aveva sudato in tutto quello strofinare, pulire, spostare oggetti. I capelli le si erano incollati alla fronte disegnandole arabeschi strani come in un tatuaggio rituale all’henné. Eppure eccolo lì, il disordine: non si era spostato di una virgola.

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PrimaVerrà

Ci siamo, allora: l’inverno sta finendo. C’è questa pagina della Vita nova che da qualche giorno mi ronza nella testa. C’è Beatrice, no?, e davanti a lei cammina Giovanna, chiamata Primavera per la sua bellezza. Ma non si tratta solo della sua bellezza, in realtà. Lei è la primavera perché Prima Verrà, perché anticiperà Beatrice. Mi è sempre piaciuto, questo gioco di parole.

Così, in questi giorni, questo ritornello mi ronza nella testa e si è rafforzato, in particolare, nelle 48 ore trascorse a Firenze. Sono partita che era martedì mattina, sono arrivata di notte, ho trascorso un giorno lì e sono ripartita giovedì mattina. E lì, guardando l’Arno verde smeraldo alla luce del mattino, e le botteghe di Ponte Vecchio che secondo la mia compagna di viaggio sono Diagon Alley, e i lucchetti intorno alla ringhiera con su scritto “Vietato mettere lucchetti”, pensavo alla primavera in arrivo, a quel vento scombinato che non si sa mai dove ti lancerà i capelli, a quel non so che di sonnolento che è nell’aria e che, chissà come, ha la stessa forma di un risveglio.

Photocredit: Bianca Cataldi

 

C’è qualcosa di molto divertente nei viaggi che durano 48 ore. Non hai il tempo di abituarti a ciò che vedi, devi fare in fretta e al tempo stesso non vuoi dimenticare nulla. E poi ci sono i bar, i caffè a tre euro, il caffè con panna che arriva anche a quattro ma chissenefrega, una volta si muore. La pizza col pesto in via de’ Calzaiuoli, il gelato cioccolato e menta, e tutti quei negozi pieni di borse di pelle che costano più di tutta me e un pezzettino del mio gatto.

Gli interminabili viaggi in pullman, quella primavera che già si intuisce all’orizzonte, spalmata in un cielo rosso fuoco al tramonto, mentre l’ordine casuale dell’iPod manda in loop Battisti con Vento nel vento e, guarda un po’, ecco qui le pale eoliche tra la fermata di Napoli e quella di Andria. Ho sempre amato le pale eoliche, chissà perché. Specialmente così, con Battisti immenso negli auricolari troppo stretti per contenerlo e il tramonto di fine inverno lì fuori, rosso e viola, raschiato nell’azzurro.

C’è una primavera lì fuori, in attesa al varco. Preparo uno degli ultimi tè caldi della stagione, accendo ancora una volta il caminetto e lascio che il gatto mi si aggrappi al maglione, tanto ormai i fili li ha già tirati tutti. Verdino mi fissa dalla culla, con quegli occhi che sembrano già capire così tanto.

Se domani sarà bel tempo, potrò finalmente tirar fuori dall’armadio la mia gonna preferita, quella verde smeraldo. Primavera. Prima verrà.

 

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