In questi giorni penso spesso al SEO. “Non hai niente di meglio a cui pensare”, direte voi. Giusto. Almeno finché non mi prendo la prossima sbandata Irish del secolo, penso a queste cose. Per chi ancora non sapesse cos’è, rimando a questo link. Chiunque gestisca un blog sa per certo quanto sia importante rispettare le regole del SEO. Perché altrimenti scompari nel mare magnum dei post presenti in rete. Se non sai come restare a galla, affoghi. E va bene così, davvero, è cosa buona e giusta. Eppure, certe volte, mi prende la nostalgia dei tempi in cui non sapevamo nemmeno che ci fossero, delle regole. I tempi in cui eravamo blogger per pura passione, senza niente da guadagnare né da vendere né da comprare. Quando un blog serviva solo per condividere con gli altri ciò che ci piaceva davvero. Non perché fossimo influencers, ma perché ci andava di parlarne, e basta. Bei tempi, quelli.
I blog prima del SEO: gli anni Duemila
Io, di blog, non ci ho mai capito niente. Per questo sono una blogger povera: perché non ci capisco un’acca. Però mi ricordo di quando ho aperto Memorie di un angelo fallito sulla piattaforma Leonardo (credo fallita anch’essa). Questo aneddoto è divertente, ve lo devo raccontare: il titolo del mio primo blog viene fuori da un mio errore di traduzione. Avevo dodici anni, avevo scovato un disegno online intitolato “Fallen angel” e, da capra qual ero, l’avevo tradotto con “Angelo fallito”. Ta-daaan. Me ne sono accorta circa due anni dopo. Chi l’avrebbe mai detto che sarei finita a vivere nelle Irlande. Vedete? C’è speranza per tutti. Vabè, bando alle ciance. Dicevamo. Era il 2005 e io avevo un blog su Leonardo. Seguivo tantissimo il blog di una ragazza lombarda, Chiara, che non sono mai più riuscita a rintracciare e ancora soffro. I blog erano una novità, erano di meno e la gente li leggeva davvero. Non c’erano le categorie, non si sapeva che diavoleria fosse un lifestyle blog e andava tutto bene. Ci si divertiva.
A ruota libera
Ciò che mi piaceva, dei blog degli anni Duemila, era la possibilità di parlare a ruota libera. Niente paragrafi, niente titoletti, niente immagini con gli attributi ALT, niente di niente. Potevi scrivere mallopponi infiniti senza neanche un “a capo” e andava tutto bene e la gente ti leggeva lo stesso. E potevi inserire un’immagine, o due, o trecentocinquantamila, e andava bene tutto. Poi è arrivato il tempo del successo di Splinder, e quello è stato un altro bel periodo. Ero al liceo, e quasi tutti avevamo un blog, nella scuola. Il motivo ultimo per avere un blog su Splinder era la possibilità di giocare con le grafiche. Le scaricavamo da siti come F**ker Graphic (credo non esista più) e modificavamo il codice HTML. Leggevo i blog delle ragazze più grandi del liceo, le ammiravo da lontano e imparavo un sacco di roba assurda. Molte cose inutili, del tipo ‘come fabbricare una vagina di plastilina’, ma anche canzoni, film, libri, tutto. Un blog era un diario a cielo aperto.
I social, le regole e tutte le altre prigioni virtuali
Poi c’è stato il boom dei social. Facebook esisteva già quando ho iniziato la mia vita fallimentare da blogger, ma non aveva il potere che ha oggi. Quando ha iniziato ad acquisirlo, però, è stata la fine, o quasi, dei blog come li intendevo io. Parlo di un tempo passato in cui si cercava il blog direttamente, in cui era tra i preferiti su Google, e non vi si arrivava tramite social. Potrei pubblicare qui il mio grafico di Analytics e farvi vedere come la maggior parte dei miei quattro pulcini arrivi da Facebook, Twitter e Instagram. Ciò implica che io pubblico un link su un social e la gente ci arriva per caso, perché gli è apparso in bacheca. In una parola: non ho lettori fidelizzati. Quelli li avevo quando gestivo un blog su Leonardo con un titolo in italenglish. Ecco cos’è cambiato. Io stessa mi comporto diversamente nei confronti dei blog che seguo. Sono la prima a lasciarmi guidare dai link che mi appaiono in bacheca anziché scrivere un indirizzo nella barra di ricerca.
Cos’è giusto, cos’è sbagliato?
Impossibile dirlo. Il blogging cambia come cambia tutto il resto, ed è normale e naturale che sia così. Eppure un po’ mi manca il tempo in cui scrivevo senza rispettare una scaletta, perché mi andava e basta. Il tempo in cui pubblicavo polpettoni da tremila parole con un font microscopico e andava bene così. Quando seguivo PunkaPuzzolaSka, The Story Siren (autoimplosa per plagio, pace all’anima sua), The BookLover e tutti quegli altri blog che sono stati chiusi o che hanno cambiato dominio e non ho più trovato. Il tempo in cui non dovevo rispettare le regole del SEO e della leggibilità per rimanere a galla. Perché eravamo pochi, ed eravamo tutti diversi, e sapevamo stare a galla da soli. Un po’ è come passare dal saper nuotare al riprendere i braccioli. E va bene così, ci adatteremo. Blogger povere eravamo e blogger povere saremo, forever and ever. Però un’ultima cosa ve la voglio dire. Sapete perché il sottotitolo del mio blog è “Make cupcakes, not war”? Non ha senso, vero? Ebbene, è stato il titolo del mio ultimo template su Splinder. Tanto basta.
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