Partenze, arrivi e ripartenze

Partenze, arrivi e ripartenze sono le parole d’ordine di ogni italiano all’estero. Le festività, in particolare, diventano l’occasione a lungo attesa per tornare in patria, dalla propria famiglia. Si parte con una valigia completamente vuota e si fa ritorno pieni di cibo. Scatolette di tonno, salmone in scatola, confezioni di caffè, biscotti… La valigia diventa un supermercato. Eppure, ogni partenza ha il suo lato dolce e il suo lato amaro. E, purtroppo, bisogna accettarli entrambi.

Le partenze e i saluti

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Quando lo dico, la gente non mi crede. Eppure è la verità: ogni volta che lascio Dublino, sto male. Così come sto male ogni volta che lascio Bari. Sembra sciocco, eppure è proprio così che funziona. Sei a casa, e ti manca l’altra casa. Chi non ha mai vissuto l’esperienza della vita all’estero tende a immaginare che l’unica nostalgia possibile sia quella delle proprie radici. Il punto, però, è che casa non è solo il posto in cui siamo nati, ma anche il luogo in cui abbiamo scelto di vivere. Qualunque sia la ragione della nostra scelta, ormai siamo lì. E nessuno dei due posti è meno “casa” dell’altro. Se poi lasci Dublino alle quattro di mattina, con le palpebre appesantite dal sonno e una chianca del lungomare di Mola nel cuore, allora è ancora peggio. Perché ogni volta non puoi fare a meno di pensare che un giorno, forse, da lì dovrai andartene for good. Che forse alla fine di tutto ci sarà un ultimo aereo da prendere e poi più niente. Ed è un pensiero che, malgrado la nostalgia di Bari, non è proprio possibile sopportare.



L’arrivo a casa

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Io non so quanto sia grande la vostra famiglia, ma la mia è immensa. Più di dieci coppie di zii, una trentina di cugini e un numero non meglio identificato di animali domestici. Baci, abbracci, regali, cartellate al vincotto di fichi, panzerottini di pasta di mandorle… Il ritorno a casa è un sapore, tanto per incominciare. Non doversi preoccupare di fare la spesa, di consumare le provviste prima che scadano, di contare gli spiccioli delle lezioni private per far quadrare i conti. Mamma e papà che dormono nella stanza accanto, il gatto accoccolato ai piedi del letto e la pendola del salone che batte la mezzanotte. La prima casa, quella nella quale siamo nati e cresciuti, sarà sempre sinonimo di famiglia. Mi è sempre piaciuta la distinzione che la lingua inglese fa tra house e home. Noi abbiamo una sola parola per entrambe, anche se forse c’è un modo per esprimere appieno il concetto di home, ed è focolare.



…e il ritorno.

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Lasciare il focolare domestico non è mai semplice, eppure va fatto. C’è un’altra casa che aspetta a duemila chilometri, e con lei il lavoro e la vita privata e gli altri affetti. Affetti che parlano lingue diverse dalla tua e hanno altre abitudini e mangiano il porridge a colazione. Due anni fa, se qualcuno mi avesse detto che a quest’ora avrei scritto un post dalla mia mansarda a Mount Merrion, gli sarei scoppiata a ridere in faccia. Perché ho sempre avuto paura, di tutto: di lasciare i miei genitori, di mettermi in gioco, di uscire dalla mia comfort zone. Di sradicarmi, soprattutto, perché è di questo che si tratta. Se è casa Dublino ed è casa Bari, qual è la vera casa? Non c’è, in teoria.

E allora devi imparare

a rimanere salda sulle tue gambe, a contarti i soldi in tasca e a farti pat-pat sulla spalla da sola quando stai male. Devi imparare a fare affidamento sugli amici più che sulla famiglia, perché quella è tutta la famiglia che c’è. Ed è difficile, ed è una sfida continua. Ma, d’altra parte, che vita sarebbe senza un pizzico di avventura? C’è solo da scendere a patti con la nostalgia ma, si sa, dopo un po’ si può far l’abitudine a tutto. Anche alle mancanze.

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