Anne Sexton è stata una delle più grandi poetesse americane del Novecento. Figlia di un alcolizzato e di una scrittrice mancata, ebbe una vita difficile e tormentata. Fu amica della Plath, anche se il loro rapporto fu piuttosto complesso, come si può evincere anche dai Journals di Sylvia. Ma tornerò a parlarvi della Sexton più in là. Oggi voglio condividere con voi la sua poesia Some foreign letters, perché mi ha commossa davvero tanto. Questa è una delle tante poesie che la Sexton dedicò a sua nonna nel corso della vita. Il componimento è tratto dalla raccolta To Bedlam and part way back (1960). La traduzione è mia, qui potete trovare il testo originale.
Alcune lettere straniere – Anne Sexton
Ti conoscevo da sempre ed eri sempre stata l’anziana,
soffice signora bianca del mio cuore. Di sicuro ti seccheresti
perché sto seduta qui, sul tardi, a leggere le tue lettere
come se questi francobolli stranieri fossero per me.
Le hai spedite prima da Londra, indossando pellicce
e un nuovo vestito nell’inverno del milleottocentonovanta.
Ho letto quanto Londra sia noiosa nel giorno del Sindaco,
in cui passavi attraverso bande di ladri, le tristi tane
di Whitechapel, stringendo la borsetta, sulla strada
verso Jack lo Squartatore che sezionava le sue famose ossa.
Questo mercoledì a Berlino, dici, andrai
al bazaar di casa Bismarck. E io ti vedo,
ragazzina in un buon mondo immobile,
che scrivi tre generazioni prima della mia. Cerco
di entrare nella tua pagina e respirarla…
ma la vita è un trucco, la vita è un gattino in una sacca.
Questa è la sacca del tempo che la tua morte ha vuotato.
Quanto sei lontana, sui tuoi pattini di nickel,
sulla pista di pattinaggio a Berlino, che mi scivoli davanti
col tuo Conte, mentre una banda militare
suona un valzer di Strauss. Ho amato l’ultima te,
una plissettata vecchia signora dalla mano ricurva.
Una volta hai letto Lohengrin e ogni oca se ne stava
impiccata in alto mentre facevi pratica della vita di castello
ad Hanover. Questa notte le tue lettere riducono la
storia a un indovinello. Il Conte aveva una moglie.
Tu eri la vecchia zitella che viveva con noi.
Questa notte leggo come l’inverno ululava intorno
alle torri di Schloss Schwabbre, come il noioso linguaggio
ti cresceva tra le labbra, quanto amavi il suono
della musica dei topi che calpestavano i pavimenti
di pietra. Quand’eri mia portavi un corno all’orecchio.
Questa è di mercoledì, 9 marzo, vicino Lucerna,
Svizzera, sessantanove anni fa. Vengo a sapere
della tua prima scalata al Monte San Salvatore;
questo è il sentiero roccioso, il buco nelle tue scarpe,
la ragazza del Nord, l’interno di ferro
del suo dolce corpo. Lasciasti scegliere al Conte
la tua scalata successiva. Andaste insieme,
armati di bastoni da montagna, con panini al prosciutto
e seltzer wasser. Non eri spaventata
dai boschi fitti di cespugli e rovi,
né dall’aspro dirupo né dalla prima vertigine
sul lago di Lucerna. Il Conte sudava
senza cappotto mentre tu ti stendevi sulla neve.
Lui ti prese la mano e ti baciò. Sferragliasti sul treno
per prendere il battello per casa;
oppure altri francobolli: Parigi, Verona, Roma.
Questa è l’Italia. Ne hai imparato la lingua madre.
Leggo di come passeggiavi sul Palatino tra le
rovine dei palazzi dei Cesari;
sola nell’autunno romano, sola da luglio.
Quando eri mia ti hanno fasciata e portata via da qui
col tuo più bel cappello sul volto. Ho pianto
perché avevo diciassette anni. Ora sono più grande.
Leggo di come il tuo libretto da studente ti abbia fatta entrare
nella cappella privata del Vaticano e di come
hai festeggiato con gli altri, come noi siamo soliti fare
al quattro di luglio. Un mercoledì di novembre
hai visto una mongolfiera, dipinta come una sfera d’argento,
fluttuare sul Foro, al di sopra degli imperatori perduti,
a far tremare la sua piccola gabbia moderna nella brezza
occasionale. Hai risolto la tua coscienza del New England
accanto agli artigiani, ai venditori di nocciole e ai devoti.
Questa notte imparerò ad amarti due volte;
imparerò i tuoi primi giorni, il tuo volto della metà dell’Ottocento.
Questa notte parlerò e interromperò
le tue lettere, per avvisarti che le guerre stanno arrivando,
che il Conte morirà, che tu ti riprenderai indietro
la tua America per vivere come una cosetta compita
nella fattoria del Maine. Te lo dico, tu verrai
qui, nei sobborghi di Boston, a vedere il mondo moralista
che si ubriaca ogni notte, a vedere bambini meravigliosi
che ballano il jitterbug, a sentire l’orecchio sinistro chiudersi
un venerdì alla Sinfonia. E te lo dico,
te ne andrai coi piedi negli stivali da quell’ingresso,
dondolando per il loro suono aspro, fuori nella
via affollata, lasciando che gli occhiali ti cadano
e che la retina per i capelli s’ingarbugli intanto che fermi i passanti
per mormorare il tuo colpevole amore mentre le orecchie ti si spengono.
Traduzione: Bianca Rita Cataldi
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