Si dice che niente resti mai uguale e che tutto si trasformi. Lo sappiamo tutti eppure, quando poi il cambiamento accade, non siamo preparati a riceverlo. Mi fa sempre innervosire la frase “il cambiamento va accolto, non respinto”. Mi irrita perché mi sembra sbucata da un libro di autoaiuto di quelli pieni di cliché e, soprattutto, mi dà fastidio perché è vera.
Quando sono arrivata a Dublino, ovviamente sapevo già che a un certo punto sarebbe cambiato tutto: che avrei finito il dottorato, che avrei dovuto lasciare la casa, che avrei cambiato quartiere se non città e chissà che altro. Ieri, però, ho avuto la conferma che dovrò trasferirmi non appena il dottorato sarà finito, perché la famiglia che mi ospita riceve sovvenzioni dallo stato per affittare una camera a uno studente e io, una volta finito il PhD, studentessa di certo non sarò più.
Ho quindi realizzato, con un certo sgomento, che l’estate prossima perderò contemporaneamente il lavoro, l’ufficio, l’università e la casa, tutto nello stesso momento. In un attimo di panico totale, ho realizzato che tutta la vita dublinese che conosco e che ho conosciuto negli ultimi tre anni scomparirà nel nulla. Puff! Così, ho pensato di risolvere la questione all’irlandese maniera: sono andata a prendermi una birra.
Da O’Dwyers, di fronte al mio glass of Guinness, ho raccontato tutto al mio irlandese.
“Dai, non è poi così male. È un’opportunità” ha detto lui.
“Finirò a vivere a Fatima (quartiere non esattamente raccomandabile, N.d.A.) e sarò poverissima e per un anno non farò niente perché dovrò aspettare di vincere un postdoc qualunque e poi…”
“E poi puoi sempre vivere nel mio sgabuzzino”.
“Right”.
Però intanto ci pensavo, a questa storia delle opportunità, e piano piano ho sentito arrivare quella strana ondata di emozione non facilmente riconoscibile che arriva sempre dopo un crollo totale. L’ho sempre provata, a un certo punto, dopo un dolore. Credo possa essere chiamata sollievo. Sollievo perché ormai il peggio è accaduto o sta accadendo, e non hai più niente da temere: puoi solo risalire. Sollievo perché non importa ciò che perdi ma solo ciò che ti resta, e ciò che ti resta sei tu.
Ho guardato il mio irlandese, la sicurezza che aveva nella voce quando mi ha detto “You’ll be fine, and you know that”. E poi mi sono venute in mente: tutte le cose che potrei fare. Potrei davvero andarmene a Sligo per un mese a scrivere in un cottage a Rosses Point, come dico sempre. Posso continuare a lavorare come ho sempre lavorato, da freelance, e in più continuare a essere ricercatrice indipendente finché non riesco a trovare un contratto (nessuno può cacciarti dall’accademia finché lo stato di independent researcher è universalmente riconosciuto). I can go corporate per sei mesi, provare l’ebbrezza di avere una vera canteen dove mangiare e bere caffè, un cartellino identificativo con la foto appeso al collo e uno stipendio fisso, che è una cosa bellissima che non ho mai visto in vita mia.
“Però, sai, un po’ li capisco quelli che mollano tutto e tornano da mamma al paesello: niente fitto, niente spese, niente fatica”.
“Lo dici perché sai che non lo farai mai”.
“Piuttosto Fatima. O lo sgabuzzino. E un lavoretto part-time da Starbucks”.
“Cheers to that”.
Guinness contro Guinness, pinta grande contro pinta piccola. Ad aprile esce il mio nuovo libro e c’è una frase, lì dentro, che mi rigira nella testa. È ciò che nonna Ninetta grida al nipotino Michele, mentre fuori nevica ed è l’inizio di gennaio del ’56: “L’allegria, Michè! L’allegria!”
Giusto. L’allegria, Michè.